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La prima esperienza significativa da giornalista è stata nel 1966, quando per la prima volta sono andato a vivere a New York. Scrivevo corrispondenze, soprattutto culturali, per il settimanale "L'Espresso", Mauro Calamandrei curava la parte propriamente politica. New York e gli Stati Uniti attraversavano allora una fase critica: Kennedy era appena stato ucciso, suo fratello Robert sarebbe stato assassinato di lì a poco durante la campagna presidenziale. Nel 1967 cominciava la rivolta dei "figli dei fiori" in California, con profonde modificazioni del costume che sarebbero arrivate anche in Europa. Si verificò in quegli anni un grande cambiamento di massa (riassunto nel movimento detto "il Sessantotto") al quale credo che noi italiani in particolare dobbiamo alcuni passaggi verso la modernità, per esempio la conquista del divorzio. Ritengo un privilegio aver visto da vicino la nascita di questi mutamenti.
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La comunicazione di ciò che sta accadendo, il presente dovunque si verifichi, è l'essenza della televisione, tutto il resto sono accessori.
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Mi interessa il presente come un racconto la cui conclusione viene continuamente rinviata, un romanzo di grande suspense di cui sfuggono quasi sempre gli sviluppi, con un finale imprevedibile, la cui sola certezza è che qualunque cosa in ogni momento può accadere.
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Il grande scrittore americano Ray Bradbury ha detto di guardare il mondo come una meraviglia, come una storia ininterrotta. È esattamente il mio sentimento nei confronti di ciò che tutti i giorni succede sotto i nostri occhi.
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L'esperienza televisiva mi ha fatto toccare con mano le straordinarie capacità narrative che quello strumento possiede se usato sfruttandone le specifiche qualità.
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Quando la TV impiega, in una diretta, tutte le sue potenzialità e cioè contributi registrati, collegamenti esterni, telefonate, filmati d'archivio, ospiti in studio, si rivela per ciò che è: vale a dire il più potente mezzo comunicativo mai concepito. Trasmette messaggi ad una fascia vastissima di pubblico, dà al presente istantaneo evidenza e velocità senza precedenti.
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Mi interessa il passato. Non tanto il mio passato, un passato semplicemente biografico.
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Mi appassiona il passato delle collettività, di noi italiani per esempio, il modo in cui i grandi avvenimenti ci hanno formato, come ci siamo rivelati sotto la spinta dei grandi avvenimenti: debolezze, viltà, eroismo, costanza, il comportamento dei romani sotto l'occupazione nazista, l'Italia liquefatta dell'8 settembre 1943, il boom degli anni Cinquanta, quella disperata energia.
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Leggendo il passato si capisce meglio come siamo arrivati ad essere ciò che oggi siamo.
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Le città parlano a chi sa interpretare le tracce residue del passato.
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È il punto centrale dei libri che cerco di scrivere: raccontare il passato ancora visibile per creare una connessione e un legame, anche per tentare di capire meglio ciò che sta succedendo.
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La mia trilogia dedicata a un immaginario fratellastro del dannunziano Andrea Sperelli raccontava il decennio dal 1911 (guerra di Libia) al 1921 (vigilia della Marcia su Roma), fondamentali per la formazione del neonato Stato unitario.
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Ho conosciuto Parigi prima attraverso la lettura, che è un bellissimo modo per conoscere una città: la Parigi del '600, per esempio anche nella sua "revisione" ottocentesca (I tre moschettieri), o la Parigi crudele del verismo. Poi, quando ne ho avuta la possibilità, sono andato a cercare nella realtà le possibili eco di ciò che avevo solo immaginato.
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Il quartiere in cui abito quando sono a Parigi è Montparnasse, un misto di grande metropoli e di "villaggio", una zona rallegrata dal giardino del Lussemburgo che è uno dei più belli della capitale francese, un quartiere dove si può mantenere un certo calore umano nei rapporti, come in una cittadina di provincia.
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Quello che la Francia sta facendo per il rilancio del disegno politico dell'Europa è bello, bello che il presidente Chirac e il premier Jospin, separati quasi su tutto, concorrenti diretti alle prossime elezioni presidenziali, siano invece uniti su questo disegno.
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Ecco una cosa di cui noi italiani non siamo ancora capaci: la difesa di una visione nazionale al di là delle diverse opinioni politiche.
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Una volta mi piaceva molto Montmartre, certe stradine segrete sul versante settentrionale dell'altura (il nome deriva dalla contrazione di Mons martirum), l'incanto dei tramonti estivi dalla spianata del Sacro Cuore. Adesso non ci si può quasi più andare, perché è diventata, come Trastevere, una specie di zoo per turisti.
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Una lunga permanenza all'estero insegna anche a capire meglio l'Italia.
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Ho avuto due grandi opportunità professionali. Partecipare nel 1976 alla nascita di un quotidiano come "La Repubblica" e nel 1987 al varo di quella importante esperienza televisiva che è stata Raitre. Due grandi direttori: Eugenio Scalfari e Angelo Guglielmi.
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Le ragioni per le quali il delitto per antonomasia, l'omicidio, viene commesso, dicono più cose di qualunque inchiesta sulle condizioni di una società.
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In Italia è praticamente scomparso quello che una volta si chiamava "delitto d'onore" , che godeva addirittura d'una certa tutela giuridica. Oggi gli italiani uccidono soprattutto per rubare soldi o per sesso.
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Una grande forza narrativa si sprigiona da episodi legati a un fatto di sangue . La cosa è nota ovviamente e la fortuna ininterrotta della letteratura (e del cinema) poliziesca lo dimostra.
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Anche l'episodio più insignificante nella giornata di uno qualunque di noi, esaminato alla luce di un episodio delittuoso, acquista un rilievo fuori dell'ordinario.
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Una persona esce di casa, va al supermercato, compra questo e quello, uscendo dal supermercato intravede un'ombra che si dilegua. Poi si scopre che in quella strada è stato commesso un omicidio. Tutta la banalità della spesa quotidiana diventa di colpo elemento di dramma: i gesti, gli orari, la successione dei movimenti, ogni dettaglio acquista rilievo e peso drammatico, quindi narrativo.
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"Telefono Giallo" ha confermato il legame profondo, ancestrale, torbido, che lega il sesso e il sangue, il sesso e la morte. Ogni volta che in un omicidio balenava un possibile sfondo di tipo sessuale, la potenza narrativa del caso visibilmente aumentava. In termini di audience questo voleva dire (nonostante ogni cautela nell'esposizione) un incremento di audience dal 30 al 50 per cento. Lo dico con preoccupazione, perché quando un richiamo ha questa forza, chiunque vede il pericolo di un suo possibile uso distorto.
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Dedicammo a suo tempo un'intera puntata di Babele (la trasmissione televisiva dedicata ai libri) ai poeti italiani viventi. Si alzavano, venivano brevemente presentati, recitavano i loro versi. Ci aspettavamo un'audience molto bassa, invece il programma, secondo l'Auditel, venne seguito da otto o novecentomila persone. Credo che quella puntata ebbe successo perché le poesie, come le canzoni, sono una forma di comunicazione concentrata e molto espressiva.
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La TV ha grande capacità divulgativa, ma spessore minimo.
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Si potrebbe dire che alla TV si applica la nota legge fisica che rende inversamente proporzionali la velocità e la potenza. Anche per questo è così difficile fare programmi culturali.
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La poesia ha in televisione un'ottima resa ed è un peccato che pochi se ne siano accorti.
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Il modo in cui un paese delinque è uno dei più potenti rivelatori della sua anima.
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